Patrizia Cappelletti è Ricercatrice sociale all’Università Cattolica del Sacro Cuore Milano.
E’ un’attiva collaboratrice dell’Archivio della Generatività sociale, progetto di grande rilievo che ha lo scopo di portare alla luce progetti capaci di produrre valore per molti.
Abbiamo avuto modo di incontrare Patrizia in diverse occasioni e di partecipare a incontri di grande valore:
Como, Become in Como
Milano, prima Giornata della Generatività Sociale
Roma, Istituto Luigi Sturzo
L’ultimo, Traiettorie di Sguardi, si è svolto a Cremona il 19 febbraio scorso.
Abbiamo chiesto a Patrizia un contributo sulla serata.
Qualche giorno fa Filippo (Berto) ed io abbiamo partecipato a Cremona ad un incontro sul tema “Giovani e lavoro”.
Una questione complessa, quella del lavoro giovanile. Ce lo dicono i dati, ce lo confermano le biografie che incrociamo per strada, quelle dei figli di vicini di casa, di amici e colleghi.
Spesso, però, le vite degli altri restano solo sullo sfondo, come delle fotografie in bianco e nero. Non ne cogli la drammatica verità fino a quando qualcuno – ed allora bastano poche, pochissime parole – ti restituisce con uno schiaffo il sapore di un’epoca, il punto di vista illuminante su una intera generazione.
E’ successo così, l’altro giorno.
E’ successo che, un certo punto, chiuso il giro di tavolo di esperienze di imprenditori ed esperti, dopo aver ascoltato storie di coraggio e di passione, di senso e di orgoglio nel fare bene il proprio lavoro, nonostante un quadro drammatico fatto di Expat e Neet, di scollamento scuola-lavoro e forme di precarietà impensabili alcuni decenni fa, succede che un ragazzo in fondo la sala si alzi.
Il ragazzo dice di avere una domanda per noi. Poi la domanda scompare, non c’è più.
Ci prova a dipanare la matassa confusa di un discorso aggrovigliato nella testa che non riesce a trovare la via per diventare ragionamento: “Ecco, io… noi… forse…”.
Alla fine se ne esce solo con un “Non ci capisco niente!”.
Qualcuno sorride, poi, però, scende il silenzio.
E’ una miccia silenziosa quella che il ragazzo accende e poi deflagra in tutti noi.
E’ da giorni che ci penso.
Il suo non capire non può riferirsi certo a quanto gli ospiti hanno raccontato di loro – tra l’altro, cosa assai rara e dunque preziosa – gli ospiti hanno parlato delle loro vite, ci hanno proprio messo la faccia, in un linguaggio semplice, quello dei fatti, dove è talmente evidente la continuità tra il dire il fare che tutto il mondo s’illumina.
Allora, cosa voleva dire il ragazzo?
Ho provato a entrare in quella testa, in quell’abbozzo di confessione disarmante, come se fosse mio figlio, un mio studente, come se fossi io oggi, a dover incominciare da capo.
Cosa non ha capito?
Probabilmente il lavoro stesso, questa cosa sempre più irraggiungibile, fantasmatica, un ologramma, un miraggio, una sorta di premio della lotteria della Befana.
Il lavoro è un nodo talmente importante nella vita di un giovane da coincidere con il mondo, con la stessa vita.
Se il lavoro è il mondo, è la vita, come si fa ad incontrarlo, a guardarlo in faccia, a prendergli la mano, a farci prendere la mano?
Sarà forse come aprire una porta e attraversare una soglia?
Ma una soglia la vedi, la attraversi, a una porta ci bussi, qualcuno ti risponde, qualcuno ti invita ad entrare, a prendere posto.
Qui nessuno ti risponde. Nessuno ti apre. Nessuno forse neppure ti aspetta.
E poi come è fatto il lavoro? Come si riconoscerlo? Non sarà mica lavoro quello che c’è in giro!
E comunque, anche se ci fosse, dove lo si potrebbe trovare il lavoro? Con quali mappe raggiungerlo?
Quali competenze mettersi nella valigia per stare tranquilli, per prendere il largo sereni?
Mi pare di sentirlo, il ragazzo, mentre chiede: “Cosa valgono le competenze che abbiamo in tasca? Sono come le collanine vendute agli indiani?”
Il ragazzo dice: “Non ci capisco niente!”
Non ci capisce niente delle istruzioni per l’uso che gli diamo. Non ci capisce niente dei percorsi scolastici e universitari, dei master e supermaster che confezioniamo.
“A cosa mi serviranno?” chiede il ragazzo.
Non ci capisce niente dei corridoi da percorrere, di uffici pubblici e privati, di servizi per il lavoro per giovani senza lavoro, di formazione continua…
“Vorrei almeno essere socialmente utile, almeno lasciatemi un anno di volontariato internazionale, con o senza dote…” sembra dire il ragazzo “Non ci capisce niente dei numeri che lanciate come sassi nello stagno dai giornali e tv, con tabelle e diagrammi colorati per raccontare una cosa nera come una disoccupazione giovanile così alta rispetto a quella di altre generazioni per non avere il sospetto che qualcuno ci stia fregando la vita”.
“Non ci capisco niente”, dice il ragazzo.
E’ questo che dice.
E forse è questo non capire il punto dal quale ripartire.
Patrizia Cappelletti