Riconoscersi nei dettagli è più facile di quanto crediate. Parola di Gaia Segattini.

Qualche settimana fa è venuta a trovarci Gaia Segattini, un’amica”patologicamente curiosa verso tutto ciò che succede in ambito creativo internazionale,dal 2006 mi sono appassionata al movimento craft americano, per i suoi contenuti di semplicità, creatività e di rivoluzione sociale“.
Così si definisce nel suo blog Vendetta Uncinetta dove tratta di nuovo artigianato, creatività indipendente, moda sostenibile, consumo, refashion ed uncinetto, oltre che di altre trecentomila altre cose interessantissime.

Gaia è stata tra le primissime persone in visita a #BertoLive. Per quale motivo?
Leggete la chiacchierata che ha fatto insieme a Filippo Berto fatto e capirete perché.

SPOILER ALERT:
abbiamo invitato Gaia a partecipare ad una serata #BertoLive insieme ad amici, chiacchiere sulla rinascita del nuovo artigianato attraverso i movimenti sociali e artistici. Tenete pronte le agende!

intervista gaia segattini bertolive

Filippo Berto: Che influenza ha avuto la musica nella tua vita professionale?

Gaia: la musica è sempre stata molto importante, non solo per la mia vita professionale. Più che gruppi o dischi di riferimento, ho sempre avuto ben chiari i miei stili preferiti, soprattutto quelli di strada e la loro spettacolarizzazione.
In comune con te ho la passione per la musica punk, molto “quadrata” no? Con pochi accordi, molto severa e decisiva, forse per un mio bisogno di rigore e purezza. Ho riconosciuto questo stesso stile entrando in #BertoLive.

FB: Raccontaci della tua formazione, di quando esploravi l’iconografia di alcuni gruppi. Avevi già chiara la tua strada?

Gaia: chiarissima, anche se magari questa convinzione durava solo un giorno. In quel periodo c’era proprio un bisogno totale di infilarsi in un’atmosfera, in un’aerea, in uno stile.
Non sono mai stata solo all’interno di un certo tipo di gruppi: ho avuto momenti in cui ero Dark, poi per due mesi ero nell’ Hip Hop perché giravo con ragazzi che facevano quella musica, poi un altro giorno ero New Wave.
Ogni volta mi travestivo, precisissima fino all’ultimo dettaglio, sempre con una certa disinvoltura.
Assorbivo tutto il possibile, poi capivo che per me era un’esperienza finita e cambiavo.
Senza mai veramente rinnegare mai nulla. Ogni esperienza per me era parte di un’unica cosa.
Per molti anni invece ho frequentato la scena mod e soul.

FB: Quando hai capito che l’interesse per lo stile influenzava anche il tuo modo di approcciarti al lavoro?

Gaia: La curiosità spesso ti porta a fare scoperte non del tutto consapevoli, ma l’interesse nei confronti dello stile e dell’atmosfera è sempre stato chiaro. Ricordo perfettamente il risvolto dei pantaloni di un cantante più del ritornello di una sua canzone. Ricordo come accostavano i colori nelle foto di copertina degli album molto meglio del singolo di lancio.
La rivelazione è arrivata nel 1994, quando a Pitti ho incontrato Ted Polhemus, antropologo, fotografo, scrittore americano.
Attraverso filmati, musica e ragazzi appartenenti a certe tribù metropolitane, Ted Polhemus presentava per la prima volta in Italia Street Style, una sorta di bibbia per me.
Quello che ha fatto nel suo libro è stato proprio tracciare una storia antropologica degli stili di strada, partendo dai Teddy Boys arrivando fino ai Ravers degli anni ’90. Per me è stata una esperienza fortissima.

FB: Si può dire che ci sia stato un prima e un dopo quell’esperienza nel 1994?

Gaia: Da quel momento ho capito che il mio interesse maggiore era tutto nella precisione dei dettagli che creavano intere atmosfere: i Mods avevano il risvolto di un certo numero di centimetri, non uno in più e non uno in meno. Gli Skinheads avevano uno stile molto pulito, perché ispirati alla cultura operaia. Sono tutti simboli e significati che mi hanno sempre affascinata tantissimo.
Lo stesso ho sempre fatto anche quando lavoravo nella moda: l’abito per me è proprio un modo di raccontare a che tribù si appartiene. Dal punto di vista professionale sono sempre stata più focalizzata nella fase di ricerca iniziale, il capire che aria si respirava, perché stava succedendo una cosa e come era collegata con l’ambiente in cui stava prendendo piede.
Ho iniziato a perdere interesse per quel mondo quando si è iniziato a parlare di brand e merchandise piuttosto che di prodotto, quando lo “stile” è stato creato a tavolino ed appioppato a prodotti assolutamente inconsistenti.

FB: Nel nostro settore ci sono sempre stati gli artigiani specializzati negli stili: c’è chi fa il barocco veneziano, c’è chi fa solo l’impero, c’è chi fa solo gli stili inglesi e il Biedermeier, c’è chi fa Luigi XV e non fa Luigi XVI. Oggi quasi nessuno richiede uno stile puro.

Gaia: Questo vale per l’interior, per il design ma anche per l’abbigliamento. C’è poco tempo per far fermentare le idee. Non esistono più scene underground, perché sono già talmente raccontate, aperte e visibili che perdono già di sapore. Il momento che una scena viene definita ha già chiuso il suo percorso.
Questo vale anche nell’arredamento: le case sono arredate con pezzi etnici mescolati con pezzi antichi, a loro volta mescolati con modernariato e design. Più che l’oggetto singolo è importante che i pezzi scelti stiano bene insieme e diano un’immagine contemporanea e di ciò che vogliamo comunicare. Ciò che esce da questa mescolanza è figlio di un gusto personale, più che dell’autenticità dei singoli pezzi, un po’ come quando ci vestiamo.

FB: ma questa velocità del consumo, questa perdita dei significati, è un processo irreversibile oppure è possibile costruire un nuovo percorso?

Gaia: A mio parere, l’atto di scegliere, oggi più che mai, è legato alla somiglianza tra chi sceglie e l’oggetto della scelta.
Ti soffermi sulle cose che ti assomigliano di più, prima ancora delle più belle. Ma definire cosa ti somigli è veramente complesso perché è importante conoscersi.
Noi stessi siamo persone complesse, sfaccettate, mescoliamo interessi molto diversi…
Quindi quella somiglianza che tu vedi, quell’oggetto che scegli in realtà è frutto di un processo molto complesso e molto stratificato e meno istintivo di quel che si pensi.

FB: Ci fai un esempio?

Gaia: Anni fa si parlava di questa epoca come un periodo totalmente automatizzato, in cui noi per assurdo avremmo avuto soltanto il dito indice per schiacciare tasti e non saremmo neanche più usciti di casa. Saremmo stati incollati ad uno schermo con delle tute di amianto addosso tutte uguali. Ma le cose poi si sviluppano sempre in modi completamente diversi, prendono strade opposte, per cui noi oggi abbiamo il cellulare super tecnologico con la telecamera con migliaia di pixel ma fotografiamo la pasta sfoglia che abbiamo appena tirato a mano. Capisci?
Tecnologia e tradizione, assieme, in maniera sorprendente ed innovativa.  Quello che sta succedendo oggi riguarda le persone e la loro riscoperta dell’emozione dei percorsi.

FB: è un percorso difficile quello di oggi, più sofisticato. È tutto più veloce e si fa fatica a riconoscere quei simboli, come accadeva con le controculture degli anni ’90. Oggi si assiste a un crollo generale delle ideologie, su tutti i fronti. Le esperienze più forti sono quasi totalitarie, oserei dire.

Gaia: Quello che sento mancare in questo momento è lo spazio – e il tempo – che si dedica alle idee e ai pensieri. Si fa molta più fatica a tornare sé stessi e chiedersi di cosa si ha veramente bisogno. A far decantare idee e sensazioni. Si ha l’ansia del far vedere prima che del fare. La gavetta invece, il percorso e gli errori, dovrebbero svolgersi con tempo e silenzio, invece.

FB: La tua storia nelle controculture è davvero interessante. Come hai stratificato queste tue esperienze e cosa le ha tenute unite?

Gaia: Tutto ciò che nasce dal basso e che ha la forza di influenzare il mondo che lo circonda è sempre stata la mia passione. È stato bellissimo entrare a #BertoLive e vedere Futuro Artigiano accanto alla biografia dei Ramones e al vinile delle Shonen Knife. Futuro Artigiano ha fatto esattamente questo: parla di nuovo artigianato e di autoproduzione, fenomeno che nasce dalla scena punk americana della metà degli anni ’90: mi stampo le mie magliette, mi registro le mie cassette audio per farle sentire ai gruppi che hanno un loro circuito, mi stampo le mie fanzine perché so che dei miei gruppi non ne parlerà mai nessuna rivista, creo un circuito alternativo così che i miei prodotti non vengano inquinati e strumentalizzati.
C’è un gran bisogno di autenticità e di genuinità.
Nella ripresa dell’artigianato c’è un enorme significato etico, economico, sociale e artistico, una forza che non si sentiva così dirompente da anni.

FB: Ora diccelo, dai: il tuo disco preferito?

Gaia: mi piacciono cose molto differenti: quelle che mi fanno commuovere, che mi emozionano tantissimo, altre per cui vorrei stare ancora adesso a pogare in mezzo a mille persone (ride).
Mi è sempre piaciuto tutto ciò che è punk: la focalizzazione, le cose nette, taglienti e definite. Mi piace lo stile skinhead originale, ma anche i gruppi che ti fanno battere il cuore ed essere malinconici senza speranza, come gli Smiths.
Seguo molto la scena Northen Soul: è stata una sotto cultura molto nascosta nei primi anni ’70 nel nord dell’Inghilterra. È il movimento da cui è nata la club culture così come è concepita attualmente:  i ragazzi che provenivano da tutta l’inghilterra, con bus e in autostop, ballavano fino all’alba in queste sale da ballo tradizionali col parquet, indossando canotte dell’Adidas anni ’70 però con scarpe dalle suole di cuoio per ballare meglio, con dei passi che ricordano l’inizio della breakdance e del funk. Un ritmo che farebbe ballare i morti ma con dei testi sdolcinati su amori tormentati che quando ascolto in macchina mi fanno sempre commuovere.
Poi mi piace lo shoegaze e  tutti i gruppi femminili punk in genere e il movimento delle Riot Grrrls.

FB: infatti il disco pescato dal mucchio di #BertoLive è delle Bikini Kill.

Gaia: Esatto! in generale tutto quello che è autentico, non troppo costruito e sofisticato mi appassiona.
Quando sono arrivata a #BertoLive ho pensato proprio a questo.
L’autenticità: dell’idea, del pezzo d’arredo, della ricerca.
Questo credo che si possa sentire anche se non hai esperienze nelle controculture degli anni ’90.
Perché la ricerca dell’autenticità ti porta a incontrare luoghi, idee, persone altri riferimenti culturali ed estetici. Da lontano vedi le poltrone e i divani che avete creato e sembrano pezzi classici della tradizione. Poi ti avvicini e inizi a scoprire i dettagli: c’è il jeans, c’è la borchia, c’è tutta una serie di finiture che noti, che appartengono alla tradizione ma raccontato anche un altro mondo.

FB: Cosa rappresenta una vera novità allora?

Gaia: E’ come quando vedi un Mod e non sai chi sia, potrebbe sembrare un tizio vestito come suo padre, perché comunque è una persona vestita in giacca, con il completo, all’apparenza potrebbe sembrare una persona che lavora in banca, formale.  In realtà le differenze enormi le scopri nei dettagli, il tessuto, il fit, lo stile.
Vedo molta più novità e forza dirompente in questo tipo di differenze che non in un immagine dichiaratamente diversa.
Oggi sinceramente non credo ci sia veramente bisogno di nuovi prodotti a tutti i costi.
La differenza interessante sta proprio in un prodotto che sappia comunicare qualcosa, un bisogno che non è stato ancora ascoltato e nei dettagli che emergono da un certo tipo di esperienza, dalle persone. Siamo persone estremamente complesse ed è veramente difficile trovarsi rappresentati in un prodotto.
Scegli la bellezza delle poltrone #BertoLive perché assomigliano alla tua storia, ed è un rapporto che instauri con loro capace di crescere sempre di più negli anni. Non ti stancano e non ti tradiscono.

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